Un racconto scritto da Vinicio Capossela La prima cosa e' la coscienza dello spazio, sapere che lontano, da un'altra parte, altrove sta accadendo qualcosa, anzi fuori le mura tutto sta accadendo, però occorre sapere dove. E la seconda è il tempo, in quel posto bisogna poter arrivare in tempo perchè quella cosa accada a noi e non immaginare soltanto che accada. Se lo spazio è poi ampio e distante è necessario differire il tempo dell'azione da quello del desiderio, perchè partire quando desidereremmo già esser lì è una vana corsa verso una sala vuota. Possedere questa consapevolezza è una grande qualità che può contribuire a rendere la vita "arte dell'incontro". Le anime si incontrano per caso, per curiosità, per determinazione: in tutti i casi l'incontro ha sempre del miracolo. Nella coincidenza la componente "magica" è più evidente, ma decidere, partire e muoversi a tempo fino a trovarsi nel luogo dove la cosa sta accadendo è miracoloso, come la costruzione di tutte le cose immaginate. C'è l'arte di fare concerti e c'è l'arte di andare per concerti, in entrambi i casi c'è sempre qualcuno da ringraziare. Eccomi a poca distanza, ci siamo arrivati alla fine, io e gli altri randagi beatnici, naturalmente è tutto iniziato e viene da correre, presi dall'affanno e dalla colpa. Però è una corsa d'euforia, come quando da giovani si arriva e tutti i compagni sono là e stanno per cominciare la partita. E si arriva finalmente a vedere l'artista e vestirlo della nostra impressione. Poi ci arrivò voce che Louis Prima avrebbe suonato in serata al Sahara Club, un posto riaperto di recente ricavato da uno scantinato. L'avevano chiuso per due anni quando si era scoperto che l'unica licenza che avevano era quella di pubblico garage per n. 4 automobili. Lì dentro si tenevano le più accanite sessions di bebop e l'avevano chiuso perchè sarebbe dovuto essere un parcheggio coperto! Il vento tiepido di primavera gonfiava le crine verdi dei viali, le luci dei chioschi, delle insegne, degli hotel ci venivano incontro dal vetro dell'Imperial. Dietro alle coloratissime casupole dei bagni numerati l'ultima lama rossa di cielo andava affondando nell'acqua chiara e neutra. Il mare era calmo e immobile come al solito, questo è un mare che non sembra neanche un mare, è solo la piscina degli hotel. Il traffico era ancora rado ma lo si sentiva crescere di minuto in minuto. Sorpassammo una magnifica alfaromeo decappottabile parcheggiata davanti a un bar luccicante di insegne neon di marche di liquori, feci attenzione alla sinistra da dove veniva una chevrolet bianca, enorme e lunghissima, impiego un pò per sorpassarci, diede un breve muggito di clacson per aver strada, io mi spostai e tutti salutammo urlando. Il Songhio da dietro urlò: "Ci siamo, ci siamo, questa è la Las Vegas italiana!" Io diedi un colpo di spalla al Cato: "Sentite, sentite, tutto è partito, stiamo entrando dentro la notte." "Minghia fratello andiamo, andiamo!". Chinasky da dietro assentiva sornione e passò avanti la birra. Alla radio passarono That's the love is di Marvin Gaye ed io aggiunsi: "mmmh, che meraviglia!" e da qualche parte delle nostre anime eccitate e comunicanti partì l'isteria. Qualcuno cominciò a ridersela, qualcun'altro gli andò dietro e in un attimo furono urla, pacche e convulsioni sui sedili. Accostai allora e mi produssi in un parcheggio tamponato. "E facciamoci questo cazzo di aperitivo." Il bar si chiamava Caffè Sahib e ci entrammo dentro come cani sparsi. Le otto e mezza di sera sono un orario impegnativo per decidere cosa bere, una scelta sbagliata può compromettere l'esito della serata. Bisogna partire, come si dice, col piede giusto e poi il fatto è che la bocca asciutta ancora ci prova gusto, non è come dopo che il motore è entrato in coppia e finisce che va bene tutto. Meglio una consulta, e Chinasky ha fama di essere tecnico. "Passo l'ordinazione." "Certamente!" "Allora?" "Consiglio una vodka sour." "Che dici, amico, che in questo buco di culo di posto lo sanno fare quel cocktail fottuto?" il Cato era un sincero ammiratore dei dialoghi di Quentin Tarantino. "Ehi, vaffanculo, amico!" gli fece eco il Songhio, profondo conoscitore di cinema. Di vodka sour ce ne calammo due giri a testa e a quel punto mi resi conto che stavamo attraversando un dimensione parallela. Parallela a tutte le altre. Che ne sapevano gli occhi vacui del barista, l'accento spesso dell'avventore, che ne sapevano mentre erano impegnati nel loro vociare, della vita che ci sciamava in corpo? Stavamo andando con la marcia veloce e le altre macchine sembravano ferme al nostro passaggio e quello che fa la differenza, pensai, è il mito. Le nostre anime incrociate nella vivida notte in cui avremmo veduto Luis Prima stavano passando all'epica personale. Non erano tempi consumati, conclusi in se stessi. Tutto invece stava accadendo e l'anestetico del cocktail in bocca era presente, puro presente, così presente da rifrangere croci e ammennicoli di tutti i participi passati e condizionali. Tutto sta accadendo adesso, mannaggia! "Ma poi questo Luis Prima che roba suona?" "E' un grande, un grande! Un terrone che canta con la voce di Louis Armstrong." "Credi che ci sarà casino là dentro?" "Mah, io so che il casino di solito lo fa lui. E' un grande crooner." "Un grande che?" "Uno di quelli che sanno raccontare storielle spiritose." "Io non so chi è ma ci vengo lo stesso." "E certo che non lo sai, mica è d'avanguardia come tutti quei mezzi froci inglesi che piacciono a te." "Minghia fratello t'ho detto che ci sto lo stesso, no?" "Ve lo racconto io chi è" disse il Songhio altezzoso ed enciclopedico. "Prima Louis, nato a New Orleans, figlio di Anthony e Angelina a cui dedicherà poi una grandiosa tarantella, due siciliani della seconda generazione. Dopo trascorsi in numerose orchestre ottiene un contratto a Las Vegas assieme alla quarta moglie che canta come Ella Fitzgerald e a un sassofonista italoamericano. Il gruppo si chiama The Witnesses, fanno pezzi loro e vecchi standard, ma a Louis gli prende la fantasia e in mezzo al testo originale ci infila quello che gli viene in mente: maccaroni, baccalà, cose così insomma. Ah, dimenticavo: suona la cornetta." "Mmmmh... ma qui in riviera lo conoscono?" "Mah, è la prima volta che viene, ha paura degli aerei. Quando era vivo non ha mai volato." "E adesso?" "Adesso è morto, e non ha più paura di niente." "Merda, allora andiamo, andiamo!" Le macchine pulsanti e abbacchiate iniziavano a incolonnarsi sciamanti sui viali del lungomare, nelle rotonde del centro o verso le colline. "Ma guarda questo, che ci ha il singhiozzo che si ferma ogni cento metri?" "Macche', chiede i prezzi, il puttaniere." "Vaffanculo marchettaro, lo vedi perchè la gente fa gli incidenti lo vedi? Tu te ne stai calmo a parlare delle meraviglie del mondo e a un tratto sbatti sul cofano di uno che ha inchiodato di colpo per fare il fesso con una nigeriana." "Va bene, ma che ce ne importa, non ci deve importare di niente, anzi vi racconterò un'altra storia." "Lo sapete che il grande Louis ha dato la voce all'orso ghiottone del Libro Della Giungla, quello che cantava 'ci basta anzi pochissimo per le nostre necessità che sono ancora meno poi insomma...'" "Ci basta un po' di briciole, lo stretto indispensabile..." il Songhio ancora più ispirato la iniziò a cantare e noi tutti dietro. "Insomma, questo pezzo l'ha cantato lui e, ci pensate, è così un grande che per registrarlo ci ha impiegato sei mesi, e quando alla fine si è deciso, al momento del coretto con la banda nella sala si sbellicavano anche i tecnici, che ne dite, questi sono uomini! Sei mesi per un pezzo che dura tre minuti!" "Si vede che si trovava bene." "Bene la fava, questo è perfezionismo, amico." "Per me le cose come vengono bene la prima volta non vengono più, secondo me cazzeggiava." "Senti, la vera cosa indimenticabile che quando la senti dici 'allora Dio esiste', quella roba lì non ti viene alla prima botta, oppure può anche succedere ma allora è una botta di culo! No quaglioni, per farsi uno stile ci vogliono anni, anni." "Per me uno con lo stile ci nasce, se ce l'ha, altrimenti ci mette degli anni che potrebbe impiegare meglio in macchina come l'amico di prima." "A me comunque non piace il jazz." "A me non piace il coca-rum." "E a me non piace tua sorella." Il Sahara era incantonato in una via del centro, girammo un po' intorno all'isolato imbottigliandoci nelle vie adiacenti finché il traffico non si blocco del tutto. La gente ci camminava sopra, biciclette, motorini, passeggini. Si sentiva già la musica e noi eravamo bloccati lì senza poterci fare niente, mi formicolavano le gambe e le mani. In ritardo, sempre in ritardo. Andare, andare, euforia e pesantezza, bisognerebbe essere di piuma per seguire il filo degli eventi, trovarsi così è come quando sei bloccato a tavola e non finisce mai e alla fine ci hai una panza tale che non ti sposti più. Arrivò un carrattrezzi ma non ci passava, scatto un allarme da una vettura parcheggiata, e la musica intanto cresceva, cresceva, e ci sferzava, non si stava più nella pelle. "Calma..." Chinasky, filosofico ci esortava alla calma. Alla fine il delinquente che aveva lasciato la sua jeeppona nel mezzo arrivò a spostarla. "Vai a fare in culo nel deserto" "Cagone!" "Tua moglie lo succhia agli elefanti!". Finalmente infilammo l'Imperiale di fianco a un cassonetto e fummo in strada. L'aria era di nuovo fresca e frizzante. Ci mettemmo a correre, avevamo addosso il ballo di San Vito. L'ingresso aveva una tettoia bianca semicircolare stile Cotton Club e sotto la balaustra la ressa, ma noi conoscevamo il portiere e trovammo così il modo di scivolare dentro. Anzi, calarci dentro, perchè c'era una rampa di scale da fare, a metà si incocciava nei bagni templi di riflessione che erano di mattonelle rosse e la luce dentro era blu. Il fondo delle scale era invece di moquette verde, l'avevano aperto da poco ma la moquette era già tutta bucata dalle sigarette. Facevamo fatica a vederci per via delle luci basse, incocciamo in una colonnina fatta a specchi ("Ma questo posto è un residuo degli anni 70!") ed ecco la sala. Piena di gente ai tavolini, il palco era piccolo e incassato al soffitto, ma manco si vedeva per via del fumo. La musica c'era, un jive forsennato, ma non veniva dalla band. "Cazzo ragazzi, qui deve ancora cominciare tutto!" "Oh yeah." Ci spingemmo verso il bar, e ce n'era da spingere per guadagnare un lembo. Il barista era un ricciolino dal naso adunco, fresco di divorzio e innamorato del bebop, bestemmiava mentre si avvitava sullo shaker, era comunque febbricitante in attesa dell'inizio e la nostra richiesta di 4 mojito gli aumentò il tremore, disse che aveva la febbre ma ci doveva essere lo stesso. Poi una salva di fischi, lazzi e battimani accolse l'ingresso sul palco dei Witnesses, i testimoni, come si chiamavano così erano vestiti, avevano l'aria di poter testimoniare su tutto, matrimoni, rapine, Geova, tribunali, qualsiasi giuria li avrebbe creduti. Solo il batterista era basso, scuro tracagnotto e ricordava Joe Pesci in Toro Scatenato. Rise in faccia agli altri, lanciò le bacchette per aria, le blocco in presa plastica, staccò il tempo e lo spettacolo partì. Bum bum bum, le mani sul contrabbasso, tip tap le scarpe nere lucide a tenere il tempo, "uh, sentili che swing!" "Che bravi ragazzi!". Ci aumentò subito la sete. Poi attaccarono i fiati con un riff introduttivo e propiziatorio, erano solidi e caldi. Il sax tenore di grossa corporatura, colorito olivastro, occhi neri di brace, capelli corti, corvini e l'aria di essere appena uscito dal riformatorio, vestito con eleganza, tweed scuro e fazzoletto bianco immacolato al taschino. Gran classe. "E chi è quel nero travestito da guappo italiano?" "Quello è il rauco Sam Butera, e alla sua destra James Blount detto Little Red, al trombone." Questi doveva essere evidentemente il soprannome al diluito colore dei capelli. Oba oba hop stantuffava la sezione, ed ecco tratapatatap l'esuberanza della cornetta affacciarsi da dietro la rossa tenda del sipario. Prima il cono della tromba e poi Lui, con l'occhio vivace come un lampeggiante. Guadagnò il centro della pedana al ritmo di due passi avanti e tre indietro. Conquistò tutti subito e fu immediatamente un gara fra i fischi di noialtri e gli acuti del principe degli strumenti. Ed eccolo finalmente al microfono, ammiccante, con la sua voce da negro che ha perduto la voce cantando tutta la notte prima. "I'm just a gigolò..." Occhietto dietro le quinte ed ecco entrare anche lei, la grande Kelly Smith, graziosa e incorniciata dal suo caschetto anni cinquanta, un incrocio tra le figurine Miralanza e Wilma dei Pronipoti, emanava profumo di lavanda. Altra salva di fischi. Attaccò subito il coretto in risposta al "marito": Gigolò, gigolò gigolò..." e il ritmo si fece più incalzante, il batterista andò sul piatto. "Ain't got nobody", gli cantava tutta la band e Louis ostinato ripeteva sconsolato "non ho nessuno, nessuno mi ama" fino a quando cominciò il delirio. Butera si produsse in lamenti e poi di nuovo uno scatto in idioma incomprensibile mentre il coro si accaniva, "I ain't got nobody" in anticipo come una pallonata presa in rimbalzo, "no, no, nessuno" e mentre il tempo cresceva ancora più incisivo e pesante Louis per meglio dare a intendere quanto si sentisse solo iniziò a urlare in dialetto siciliano "nuddu. nuddu" che significa sempre nessuno, nessuno, ma suonava ancora più disperato e i testimoni gli andavano dietro rispondendo "nuddu, nuddu" e lui sempre più affannato in gemiti primitivi "screammin screammin stasseiduhup, overrenn, no one" fino all'apoteosi risolutivo "sì, a nessuno importa niente di me" e anche noi anime perdute e sparse nel mondo gridammo "nessuno, nessuno" e fu un boato sgangherato e trionfale. "Evviva, evviva" Luis. Si inchinò grintoso e orgoglioso nella sua camicia rosa a collo largo gonfia di volant alla spagnola sul davanti, traboccanti da mezzo la giacca da smoking del vestito color blu elettrico. Aveva il collo largo e taurino, i lineamenti spessi e carnosi, capelli unti, neri, nasone e sorriso rassicurante da vecchio zio d'america. "Ancora ancora." Ci guardò interrogativamente, saltellò come un ragazzino impaziente e disse: "Ohi Marì quanto suono aggio perso per tì!" e il jive sotto già spingeva puntuale e forsennato, "baby tell me ove me", "sì, sì, Marì dimmelo che mi ami" e la band rideva a tempo, in coro, e poi fu la volta del sax tenore che andava soffiando in tutte le direzioni e tutti a urlargli "dai, dai" e lui con le vene delle tempie enfiate si chinava fino al pavimento e poi alzandolo verso il soffitto fino quasi a toccarlo e tenere all'inverosimile note interminabili come sirene di piroscafo, e quando ebbe cercato da tutte le parti tanto da poter stracciare una camicia di forza, la tromba gli corse in soccorso e duettarono assieme come una giulietta e romeo ubriachi. Erano ormai tutti nel delirio, io ordinai un rum che mi trangugiai senza sentir niente tanto era alta la temperatura generale. E Louis disse: "Ehi gente, sentite bbuono?" "Sì, sì". "Perchè anche io mi sento benissimo!" fischi di approvazione. "Sapete l'ultima volta che ho suonato a Vegas ero in un posto tale che quando un tizio mi ha chiesto dove fosse il cesso, io ho dovuto rispondergli: 'Non lo vedi amico? Ci sei giusto in mezzo!' Ah, e siccome siete un pubblico meraviglioso vi darò un consiglio." "Quale Luis quale?" "Beh, ecco non me ne vogliano le signore ma quando vostra moglie vi chiede di portarla in un posto dove non è mai stata, portatela in cucina! Dico bene, Kelly? " "Ah, ah". "Oh no Kelly, non scappare, in questo posticino simpatico si stava solo scherzando un po', come on baby, torna qua, su, su, ritorna" e assieme attaccarono Baby Won't You Please Come Home, un medium swing disperato e suadente in cui lui si lamenta come fosse sotto la sua finestra a supplicare, e poi a pace fatta seguì Banana Split For My Baby, accattivante pezzo anni cinquanta in puro technicolor. Io li guardavo e attraverso il lucicchio di vestiti e strumenti intravedevo le notti dei casinò di Reno, le code della Cadillac, le foto dei vecchi parenti scolorite, Jack Lamotta ingrassato in un locale di Las Vegas e lo swing inarrivabile di cui solo questi figli della polvere sono capaci. Ai tavolini la gente faticava a star ferma e a me alla mente tornava un titolo di un loro vecchio disco, The Wildest. I selvaggi, gli invasati, ed ora eccoli selvaggiamente qui. Non si stava più dal caldo. Louis cantava e sudava e i testimoni peggio di lui, i ritmi si alternavano, ora era la volta di un jungle africano ora di una habanera da pinguini, sempre e comunque wild, fino a quando... ...fino a quando il leader lasciò la postazione ossequioso: introdotto da un liquido arpeggio di piano avanzò verso il centro l'inquietante sax tenore. La sala si azzittì sotto l'effetto dello stridore dei fiati in una specie di ouverture da banda di piazza in una piazza vuota, pronta per un duello da resa dei conti. Accigliato, ci giocò su queste dissonanze per un altro po' e tutti iniziavamo a chiederci cosa sarebbe successo, e finalmente la nota si rilassò su un accordo maggiore e ai più parve di conoscerlo bene quell'accordo che piano piano si apriva e diventava nientemeno che Torna a Sorriento. "Sì, sì, dacci dentro Sam!" E lui ci mise dentro il cuore nostalgico da sradicato emigrato di seconda generazione e le note uscivano come da un rullo di cartavetrata e il collo gli si gonfiava come a un rospo e ci parve addirittura che piangesse, stregato da chissà quale sua nostalgia e ci guardava scuro com'era uno per uno, alzò ancora una volta al cielo la bocca dello strumento ed emise la nota più funerea e profonda di tutta la serata. "Sì, sì, l'ha suonato come un Dio" parve dire il grido commosso di Louis nuovamente riapparso e urlò come se ci presentasse tutta la sua famiglia: "Sam Butera, Sam Butera!" e Sam rimase così, assordato e scontroso. La band attaccò repentinamente, quasi a tradimento quasi su quell'alto momento, una marcetta da matrimonio in casa Corleone e tutti fischiarono in visibilio, "just your cosce are so nice Angelina!" "Uh uh!" "Pizzeria, super minestrone, my caro mio, matrimoni, coppetti e spumoni." "Woh, uh," tutti si abbracciarono ed ecco il ritmo di tarantella sbocciare come una larva e trasformarsi in un indiavolato, il più indiavolato swing. "C'è la luna in miezzo o' mare, mamma mia a chi t'hai dare? Se te dongo allo musicante iddu va iddu vene sempre lo strumento alle mani tiene, si ci piglia a fantasia lo strumento è a figlia mia..." E la fantasia ci salì a tutti quanti: "Zoomma zoomma e baccalà" salta salta vecchio Chinasky e tu Cato che fai, stai fermo? Questa è la notte che supererà tutte le altre! Balliamo in cerchio, stappiamo vino bbuono, godiamocela fino alla fine la luna in miezzo o' mare, il Sahara qui sta per saltare in aria come un vulcano e adesso Louis te ne puoi tornare anche a Las Vegas, perchè d'ora in poi di 'fantasia' ne avremo tanta da farti resuscitare a ogni vera, selvaggia baldoria. E Louis Prima rise...